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Pubblicato: 25 Gennaio 2015
Dopo la pausa natalizia le conviviali del Rotary Club Foggia riprendono con l’autorevole intervento del Prof. Davide Leccese che ci ha intrattenuti con una interessantissima e approfondita riflessione sul tema “ Foggia è brutta o bella?”.
L’incontro è stato suggerito, ci racconta il Presidente, dalla lettura di uno scambio di interventi sulla rivista on line “ Lettere Meridiane” diretta da Geppe Inserra , una sorta di “ salotto” culturale virtuale sul quale personalità della cultura foggiana tra i quali , oltre al nostro illustre relatore citeremo il prof. Giuliano Volpe, già Rettore dell’Università di Foggia, hanno dissertato sulle “ qualità” e i “ limiti” della città in relazione a quelli che sono i valori estetici ed etici.
Sottile infatti è nel definire la bellezza di una città il confine tra estetica ed etica ed è proprio quello che il prof. Leccese con una relazione ricca di ricordi e citazioni ha chiarito all’attentissima e numerosa platea di rotariani presente.
L’intervento è stato preceduto dalla socializzazione con il Club della Presidente del Rotaract, Francesca Cascioli , la quale ha illustrato il service Art in action che ha visto, come prima attività il contributo e la partecipazione dei rotaractiani al progetto di riqualificazione del quartiere CEP con alcune opere di arredo urbano realizzate dagli studenti del Liceo Artistico di Foggia.
Alleghiamo la trascrizione della preziosa conversazione del Prof. Leccese.
FOGGIA È BELLA O BRUTTA?
(Conversazione al Rotary International di Foggia)
Ringrazio il Presidente GIULIO TREGGIARI per l’opportunità che mi ha offerto di riflettere su questo argomento: Foggia è bella o brutta?
Come ha riferito Giulio Treggiari la domanda introduce una provocazione, da me posta sul social network di FACEBOOK, affollatissima e seguitissima, e mi auguravo – come è avvenuto – che la provocazione suscitasse un dibattito che mettesse a nudo non solo le idee correnti, e a volte scontate e ripetitive, su una Foggia che non piace, ma anche quella passione, un poco partigiana, che in fondo questa è la nostra città, queste sono le nostre radici, con questa culla dobbiamo fare i conti e verso cui dobbiamo assumerci la responsabilità del suo “essere com’è”.
La città siamo NOI. Italo Calvino scriveva, ne "Le città invisibili": "Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure".
Constatata la condizione della nostra città, di desideri abbiamo sempre bisogno; di paure faremmo volentieri a meno.
Certo – a proposito di paure – non ci conforta la constatazione amara che la vivibilità a Foggia sia piuttosto precaria per gli scippi, le bombe, le estorsioni, le aggressioni, i vandalismi. E quando riflettiamo su questi episodi nefasti noi diciamo: “Che brutta città”; il giudizio - apparentemente estetico, diventa inesorabilmente etico.
Allora ha senso la domanda: Cosa rappresenta per me la mia città?
La mia città rappresenta la casa in cui nacqui, la strada che mi vide giocare, il quartiere della condivisione degli avvenimenti quotidiani, il sorgere del sole e l’affacciarsi della notte; il sole di tutti e la notte di ciascuno di noi, avvolti nel bagliore attenuato dei lampioni di una volta che avevano la delicatezza dei pensieri che custodivano le favole che ci venivano narrate e che oggi sono uccise dalla foga delle immagini e delle parole della televisione o dal turbinio ubriacante dei videogiochi.
Per quelli della mia generazione la Foggia che viene ripetuta ai figli e ai nipoti o ai giovani che incrociano la nostra vita – se vogliono ascoltarci – è la città del dopo-guerra, con il maresciallo dei Vigili Urbani Lagonigro che, piccolo e burbero, faceva strage dei palloni di pezza con cui si poteva giocare per strada.
Era l’Oratorio di San Michele, prossimo al quartiere dei “Caprari”, con case basse in cui convivevano persone, mucche, pecore e cavalli. Era l’orto di San Pasquale dove si tentava di fare razzia di frutta con la benedizione (si fa per dire) dei frati contro quei “figli di buona mamma” senza buoni costumi e timor di Dio.
Erano le Scuole Elementari con l’obbligo del grembiule per nascondere le differenze sociali, espresse – per alcuni figli del popolo – in abiti rappezzati o passati di generazione in generazione.
Era d’estate la Foggia del treno per Siponto che riversava sulle spiagge una folla di bagnanti, con le mamme che aveva lavorato, fin dalle prime ore del mattino, per preparare il pranzo da consumare – oggi si direbbe “al sacco” – raccolti sotto incerti ombrelloni, fianco a fianco con altrettante famiglie con un nugolo di figli.
Non era una bella Foggia ma il ricordo dell’infanzia addolcisce ogni increspatura di sofferenza e trasforma in favola persino l’indigenza.
Foggia sta diventando purtroppo la nostalgia di un passato di com’era la città, mandando allo scarto persino il negativo dei tempi passati, ri-sognata a confronto delle paure che ci accompagnano nel presente.
Sempre Italo Calvino scriveva: “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”.
Della bellezza e della bruttezza della città – come agglomerato urbano – si discute, eccome; se ne discute partendo dal dato materiale (le case, i quartieri, le piazze, le strade, i servizi) ma si è inevitabilmente incanalati sul “vivere la città”.
Giustamente Alessandra Bozzelli ci ricorda, in una sua riflessione su “il ruolo della bellezza nella questione dell’abitare contemporaneo”, che “La costante ricerca della bellezza urbana si individua nel protagonismo della citta”. Esplicitando questo concetto, il protagonismo della città si configura come una comunità “civile” la cui bellezza (estetica ed etica) è acclarata dalla corresponsabilità della sua identità, affidata alla cura del suo governo e vissuta dai governati come una comunità “propria”.
Paolo Colarossi precisa ulteriormente, sulla questione “città bella”, che “la città è specifica, perché e un’opera abitabile, composita, mobile; la città è accessibile perché promuove una bellezza che sia per tutti; la città è morbida, perché si compone di indirizzi e non di regole e norme; la città è complessa, e non solo nella forma fisica ma nella percezione che di lei hanno i suoi abitanti; la città è fondata sulla costruzione dello spazio pubblico, sulla memoria, sulla reinterpretazione dei riferimenti, sulla qualità della quotidianità”.
Possiamo subito affermare – senza tema di smentita – che una città è tale se è viva, vivibile e vissuta. Ecco che allora la domanda: Foggia è bella o brutta? diventa “Foggia è viva, è vivibile, è vissuta?”
È stato agevole per me accertare che, posta la domanda originaria, la gran parte degli intervenuti nel dibattito, hanno espresso giudizi negativi, sia per quanto attiene il dato materiale, prima citato, che per quanto riguarda lo scenario retrostante. Foggia è considerata non bella e non viva, non vivibile e non vissuta.
L’amarezza, per questi giudizi endogeni è accresciuta se – sempre attingendo ad internet – si coglie un diffuso giudizio sulla “bruttezza di Foggia” secondo statistiche che la vedono ai primi posti nella valutazione negativa per la “qualità della vita” (meglio dire la non qualità della vita), codificata dagli accadimenti prima citati.
Anticipo una domanda che ci porremo alla fine di questa conversazione: se Foggia è brutta (nel senso ampliato del termine) ha ancora senso rimanere a Foggia o non è opportuno e urgente “fuggire da Foggia”, dando corpo a quel motto secondo cui “Fuggi da Foggia non per Foggia ma per i Foggiani”?
E già: la città siamo noi, l’estetica di Foggia ci catapulta sull’etica dell’essere cittadino, sul modo di “avere cura”, “di creare”, “di custodire”, “di inventare” e “di profetizzare” la nostra città. La città, prima di essere descritta, narrata, è scritta, parola dopo parola, pietra dopo pietra, civismo con legalità, legalità con appartenenza.
Quanto ha ragione Giancarlo Consonni, nel suo affascinante saggio su “La bellezza civile. Splendore e crisi della città”, quando sostiene che: “….Il brutto che deturpa il paesaggio….non ha responsabili. Ha cessato di essere un insulto all’identità collettiva, anche perché sempre più esiguo è il numero di coloro che sentono come propria la bellezza ereditata dalle precedenti generazioni”.
La dimensione estetica di una città diventa allora una dimensione etica e politica; dove politica si coniuga come “polis”, comunità dei corresponsabili, nell’esplicazione dei doveri e dei diritti.
Lo sguardo-fuori diventa il parametro della riflessione dentro, mettendo in moto quella intelligenza emotiva che ci fa ragionare con il cuore e ci fa emozionare con la mente.
Come Foggia sta scrivendo se stessa? Che scelte compie in ordine a servizi che dobbiamo considerare primari per la sua crescita sociale, economica e culturale? Chiudono le edicole, si fa rarefatta la vendita dei giornali, le librerie lamentano un crollo verticale dell’acquisto di libri, le pinacoteche registrano la frequenza sempre dei soliti affezionati, ai dibattiti partecipano sempre i soliti e pochi interessati.
Non si fa a tempo a restaurare, a mettere a nuovo – come Piazza Mercato – che si vandalizza lo spazio; nella Villa Comunale si frantumano lapidi, si imbrattano monumenti e – per non dare sempre la colpa al presente – si lascia la statua di Vincenzo Lanza con un moncherino, senza provvedere al suo restauro. Il “Gruppo Amici della Domenica” (libera associazione di volontari) provvede a sanare quella che viene chiamata “Piazza Tavuto” – al termine di Via Crispi – che al mattino seguente è deturpata da ogni immondo deposito.
Di converso: si moltiplicano le pizzerie, i bar, le sale scommesse; si registra un vorticoso aumento delle patologie di gioco d’azzardo, aumenta l’ambulantato non legalizzato e a forte rischio igienico-sanitaria.
Leggere la città, scrivere la città significa conoscere la città, non solo le negatività emergenti ma anche le sue qualità: se chiedete, a chi lamenta che Foggia è brutta, se conosce il Museo Civico, le Gallerie d’arte diffuse per la città, l’attività pregevole del Conservatorio “U. Giordano”, le non poche iniziative delle varie associazioni sportive, culturali, artistiche, musicali e di volontariato di Foggia, i più sinceri dicono di non sapere; i meno sinceri di non apprezzare o di non avere tempo per la partecipazione.
Foggia è da quindici anni una città che ha l’Università; ma possiamo dire che è una città universitaria, nonostante gli sforzi encomiabili, di alcuni ambienti accademici, di trasferire, nel tessuto sociale, economico, culturale, i profili di alta formazione che solo un contesto universitario può offrire?
Giacomo Fronzi, in un suo profondo articolo su “Bellezza e città - Osservazioni sul rapporto tra estetica ed etica negli spazi urbani” cita James Hillman che, in apertura di una conferenza intitolata “La pratica della bellezza”, lamenta il fatto che “generalmente parlare di “bello” e di “bellezza” in filosofia ha significato per troppo tempo, e in maniera piuttosto retorica, riferirsi a una dimensione ideale, elevata, così elevata da rendere la discussione su questi temi «noiosa, ottundente, narcotizzante». Molto più interessante – secondo Hillman - potrebbe essere, quindi, parlare di bellezza come «pratica». Praticare la bellezza significa assumerci la responsabilità di rendere viva, vivibile e vissuta la nostra città.
Le famiglie e la scuola hanno, allora, l’obbligo di interrogarsi sul loro specifico ruolo in ordine alla educazione delle nuove generazioni che appaiono in generale disorientate non solo di fronte alle prospettive della personale esistenza ma anche non impegnate nel rispetto delle regole comuni del vivere sociale.
È di questi giorni la notizia allarmante che una teppaglia di minori ha aggredito un disabile in carrozzella, picchiandolo selvaggiamente solo per rubargli il telefonino. E quando a questi teppistelli si chiede la ragione del loro deviato comportamento, sembrano non avvertire appieno la gravità dei loro gesti e trovano – non rare volte – l’attenuante giudizio delle famiglie che dicono: “Sono ragazzi, non volevano fare del male”.
Certo non auspichiamo una città piena di divieti perché vale quanto ha scritto il poeta Ovidio: “Nitimur in vetitum semper cupimusque negatum”. Propendiamo sempre per ciò che è vietato e desideriamo ciò che ci è negato. Gli risponde Orazio sostenendo che “Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci”, cioè il massimo risultato lo si ottiene unendo l’utile al dolce; per noi, quindi, è auspicabile un senso civico ottenuto più con il convincimento che con la minaccia.
Uno dei parametri di valutazione, per l’attribuzione del titolo di “capitale europea della cultura”, assegnato, per il 2019 a Matera, è come vivono i cittadini la loro identità, da proporre agli altri; come si sentono protagonisti in solido; come avvertono ogni bene materiale come un bene sociale e spirituale.
Cosa avvertiamo, invece, a Foggia? Si vive parcellizzati, ghettizzati, ingusciati in “confraternite d’intese anticipate”, non condividendo le premesse delle azioni, anche positive e benemerite, dei gruppi disarticolati o reciprocamente ignorati, se non proprio contrapposti. Steccati sociali, non edificati eppure appariscenti, distinguono e dividono la nostra città, con zone impraticate abitualmente e tristemente impraticabili; zone ghettizzate o che si autoghettizzano dove il vecchiume urbanistico trasuda superfetazioni di spazi rubati ai marciapiedi, pianterreni e primi piani con cancelli a tutela dei propri beni e nella speranza di salvarsi dal dilagante fenomeno dei furti in abitazione. Zone nuove, ai margini della città e in piani di espansione, con palazzine costruite “a stampetti”, quasi a significare che la nostra è una città originale nella sua banalità edilizia.
Eppure qualcuno reagisce, ne parla, ne discute, provoca, dando respiro alla cittadinanza attiva, appassionata e competente che parla sottovoce e non fa sguaiata proposta del cambiamento.
È una maggioranza – che non vorremmo silenziosa – attenta, onesta, solidale, partecipe, competente, propositiva, operosa che giorno dopo giorno vive la polis, vorrebbe essere ascoltata da chi governa, si offre per qualche progetto di rilancio e che, invece, trova abitudini al fatalismo, consuetudini all’immobilismo, astuzie di disattenzione.
E non è captatio benevolentiae se sottolineo come alcuni interventi del vostro club mi sono parsi orientati verso una strategia di rottura di questa crosta separatista e del laisser faire e hanno assunto, come deve sempre essere, non una risposta chiusa al crescere della comunità ma una provocazione. Cito, fra tutte, e solo a titolo di ultimo emblema, la statua del “viaggiatore”, posta nel piazzale della stazione ferroviaria. Chi è? Uno che parte e dà l’ultimo sguardo alla sua città? È uno che torna? Di sicuro è uno che non sta sul piedistallo ma che sta con i piedi per terra, che non si pone distante dal terreno di quell’infinito viaggiare della imprescindibile condizione umana per cui dobbiamo essere di una patria e insieme cittadini del mondo secondo l’orizzonte dei sogni e nel flusso dell’avventura della vita.
Quanti emigranti ha avuto la nostra terra! E ogni andar via è sempre un restare con il ricordo, è la nostalgia persino delle privazioni, della sofferenza, delle cattiverie subite come della solidarietà ottenuta e non sperata.
Foggia, nella poca letteratura che ne fa oggetto di descrizione, viene fotografata come una città assolata, affogata nella famosa calura estiva del favonio.
Una pagina stupenda su Foggia è quella di Pasquale Soccio. Una Foggia che si slarga nella sua pianura, sotto l’accecante giallo dei suoi campi e incorniciata dall’ondulata carezza delle colline e dei monti del Subappennino.
Ecco, questo va ricordato: Foggia è stata punto focale della Capitanata, con approdi di compaesani del Subappennino, del Gargano e – per effetto della transumanza – delle regioni del Molise e dell’Abruzzo; così come deve a Napoli, capitale del Regno borbonico, molto della sua identità economica e culturale; così come deve alla napoletanità quel modo fatalista ma volto alla speranza del positivo, ben emblematizzato nel detto «Ha da passa' 'a nuttata», della celebre commedia di Edoardo De Filippo “Napoli milionaria”, inserita nella raccolta “Cantata dei giorni dispari”.
Un’altra lettura di Foggia: Giuseppe Ungaretti, viaggiando nel Sud, raccolse le sue impressioni poetiche in uno scritto – per la verità poco conosciuto – dal titolo “Il deserto e dopo le Puglie”. Il poeta parla del «chiarore infinito del grano» di Lucera dei Saraceni, il «grido sordo del sole» di Da Foggia a Venosa e il «treno che arriva e passa su papaveri come sul fuoco» di una carta dei Manoscritti giramondo. “Tali particolari, - commenta Paola Montefoschi - se non sono frutto di una proiezione della fantasia per rendere più credibile il reportage dell’inviato speciale, possono far ripotizzare addirittura una terza spedizione in Puglia del poeta compiuta nell’estate del ’34. In questa prosa, la visione dell’arida distesa del Tavoliere e la sua trasposizione fantastica nel fulgore di una soltanto immaginata giornata estiva riportano il poeta ai ricordi della sua terra «affricana» bruciata da un «sole, creatore di solitudine». Grande è lo stupore del viaggiatore di fronte ai miracoli compiuti dall’uomo nel «deserto», di fronte alle tante fontane, chiese, monumenti di Foggia e dei suoi dintorni”.
Ecco, un poeta viaggiatore trova bella Foggia capace di riscattarsi nelle sue fontane, nelle sue chiese e nei suoi monumenti, mentre altri la trovano brutta.
A me piace invece Foggia di notte; Foggia di notte è bella se la leggi con cordialità. Erri De Luca, poeta, scrive – a proposito delle città di notte – “È bella di notte la città. C'è pericolo ma pure libertà. Ci girano quelli senza sonno, gli artisti, gli assassini, i giocatori, stanno aperte le osterie, le friggitorie, i caffè. Ci si saluta, ci si riconosce, tra quelli che campano di notte. Le persone si perdonano i vizi. La luce del giorno accusa, lo scuro della notte dà l'assoluzione. …… Nessuno chiede conto di notte. Escono gli storpi, i ciechi, gli zoppi, che di giorno vengono respinti. È una tasca rivoltata, la notte nella città. Escono pure i cani, quelli senza casa. Aspettano la notte per cercare gli avanzi, quanti cani riescono a campare senza nessuno. Di notte la città è un paese civile”.
Dal dibattito, che ha dato origine a questa riflessione, ho dedotto – con qualche amarezza – che Foggia è poco conosciuta dai foggiani sia per il suo passato sia per il suo presente; immaginatevi se poi è possibile ipotizzare un conoscere prospettico.
Manca una storia organica su Foggia pur i tanti tentativi di scrivere frazioni della sua lunga esistenza; storia nobile che ha sedimentato incroci importantissimi di eventi nazionali e sovranazionali, nel lontano passato e nel recente.
Certo, viene citato l’amore profondo per Foggia e i suoi dintorni da parte di Federico II; quel Federico II che fece di Foggia la sede imperiale del Regno di Sicilia dal 1220 al 1250.
Vengono inoltre citati eventi come la morte di Carlo I d’Angiò il 7 gennaio 1285; colui che sconfisse Manfredi a Benevento; quel Manfredi che Dante descrive come “…biondo era bello e di gentile aspetto… “ (Purg. III, 107).
Ma questa è stata una terra di grandi transiti, di significative presenze, di esaltanti eventi che purtroppo non hanno avuto – anche per colpa nostra – il dovuto riconoscimento nella sedimentazione storica.
I fatti assumono spesso il connotato del “si dice”; eppure sono documentati dalla storia. Cesare, nel trambusto dello scontro con Pompeo, nel febbraio-marzo del ‘49 pernotta ad Arpi, e scrive ancora una volta a Cicerone, apprezzandone la mediazione e comunque augurandosi che stia dalla sua parte.
Arpi, la nostra illustre città genitrice di cui rimangono abbandonati all’incuria i resti a pochi chilometri da Foggia. Cito la triste vicenda della “Tomba della Medusa”, più volte devastata, nonostante il grido di dolore di chi, come il prof. Volpe, ha costantemente lanciato l’allarme per questo ed altri siti, colpevolmente destinati a una triste cancellazione dalla memoria dell’umanità.
Ricordo “Passo di Corvo”, a pochi chilometri da Foggia, con un insediamento datato V-IV millennio A.C.
Un patrimonio archeologico – il nostro – che farebbe l’invidia di tantissime zone d’Italia e del mondo e che ha avuto – solo per citare un’illustre studiosa della nostra terra – in Marina Mazzei una raffinata e affezionata cultrice, mai da dimenticare.
E noi – i più - cosa ne facciamo del nostro passato? Ne facciamo una memoria nostalgica, carezzevole quanto basta per soddisfare la malinconia; pigra quanto basta per non farne radici per un nostro riscatto di responsabile presa in carico per il nostro presente e per il futuro delle nuove generazioni.
La Natura non è stata generosa con Foggia; i terremoti hanno vandalizzato quel poco che lo scorrere dei secoli aveva preservato dall’incuria degli uomini, dalla dabbenaggine antica dei detentori dell’edificare. Poi ci si è messa la guerra, con la devastazione crudele delle cose e assassina della gente.
Qua e là, sparse per la città, rimangono reliquie tristi e timide di quel buon passato architettonico della Foggia nei secoli. Sono “testimonianze”; diciamo, “pro-memoria” - sottolineiamo. E se non vogliamo ricordare per nostalgia ma per conservazione rispettosa, a che servono queste testimonianze?
Mi batto da sempre per una discussione seria sulla distinzione tra una Foggia “vecchia”, una Foggia “antica” e una Foggia “storica”.
Continuo a meravigliarmi, con preoccupazione, che a Foggia si pensi a costruire in espansione e non si pensi contemporaneamente a proteggere quel poco di nobile – dal punto di vista architettonico – che è rimasto; non si pensi a bonificare il degradato, non si pensi a procedere con rispettosa competenza, fondendo antico e storico nel presente che non cristallizza il dato spaziale ma lo rende vivo nella fruizione, come avviene nelle comunità attente di altre parti d’Italia.
Marguerite Yourcenar ha scritto: “Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell'uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa delle città”.
Proviamo allora a camminare – quasi turisti curiosi nella nostra città – nei vicoli alle spalle del Municipio, tra Via Arpi, Via Manzoni e Corso Garibaldi. Spicchi di antica architettura padronale, con attorno abitazioni ora curate come minute bomboniere, ora purtroppo, sfregiate da improvvisati e pacchiani cromatismi.
Proviamo a fare un tour negli Ipogei prossimi alla Chiesa di Santa Maria della Misericordia, meglio nota come Chiesa dei morti, costruita nel 1650 e recentemente riportata all’antico splendore. Guardiamo con occhi curiosi e attenti la Cattedrale, anch’essa restaurata, che un tempo era emblema di quel romanico-pugliese che si ammira, magnifico, nella Cattedrale della vicina Troia. Riappropriamoci con orgoglio del Teatro “U. Giordano”, finalmente riaperto e sfida – ora che è stato riaperto – per una fruizione il più possibile estesa, di musica e di teatro, degni della sua storia e del suo prestigio.
Tutti distratti, pigri, insensibili al bello nella nostra città? No. Dobbiamo riconoscere merito, ad esempio, alla Fondazione Banca del Monte, alle spontanee associazioni sorte in quest’ultimo periodo, ai gruppi – tantissimi – ideati con il passaparola di Internet, che hanno preso a cuore una robusta rinascita della conoscenza e della “protezione” del “bello” della nostra città.
Bellezza che non si circoscrive, come insisto in queste note, solo ai palazzi ma si amplia alle menti che hanno reso illustre questa nostra terra. Eppure di queste menti non rimane che qualche lapide trascurata o qualche intitolazione di strada, mentre Rosati, Giordano, Caldara, Altamura, Nigri, Lanza, Scillitani, Radesca, Capozzi, Stame dovrebbero riecheggiare orgoglio dai pori della nostra gente e non offensive e tristi noncuranze.
Un altro aspetto dell’orgoglio dell’appartenenza è dimostrato dalla passione che singoli e gruppi stanno impegnando nello studio del vernacolo; il foggiano. La lingua è da sempre costituzione d’identità ed è questo un fenomeno, tutto da studiare, che sta percorrendo tutte le contrade dell’Italia dei Comuni, in una sorta di recupero della memoria che ha lasciato tracce della nostra esistenza quotidiana proprio nelle parole, apparentemente meno auliche, del dialetto.
È la città dei proverbi, dei modi di dire, delle commedie, delle poesie che mandano per le strade effluvi di abitudini sacre dei nostri nonni, poco istruiti e, paradossalmente, molto “colti”, cioè coltivatori delle origini da tramandare prima che apolidi inclinazioni di essere “altro da noi” prendessero il sopravvento condannandoci all’impersonalità dei senza storia, dei senza radici.
Le radici: Le radici sono l’anima di un popolo che si nutrono nell’humus della terra che le generò. Non è agevole conoscere, per sentito dire, le radici.
Eraclito, filosofo greco, ha scritto: “Pur percorrendo ogni sua via, tu non potresti mai trovare i confini dell'anima: così profonde sono le sue radici”.
Le radici: mi avvio alla conclusione di questa riflessione e, come avevo anticipato, mi pongo la domanda: Restare o andar via da Foggia? Tornare o fuggire da Foggia?
Anche per questa domanda faccio riferimento a quanto si evince dal dibattito su internet: tanti di una certa età, con accorata amarezza, hanno dichiarato che, “se potessero”, se ne andrebbero, soffrendo per quell’ansia che una quotidianità sconquassata ci propina, complice, forse, un modo di “far notizia” che mette in risalto prevalentemente il negativo e non dedica che pochi spiragli di diffusione al tantissimo positivo della “Foggia per bene”. Complice anche quella malnata abitudine di dire “Mi faccio i fatti miei”, fatta salva poi la voglia improduttiva di lamentarci che “tutto va male, maledetta città”.
“Non c’è lavoro”, “Non si fa niente”, “Non c’è cultura”: queste le denunce.
Ho trascorso gran parte della mia vita con i giovani, prima come docente e poi come preside; ho sempre spinto i miei ragazzi e le mie ragazze a pensare all’innata condizione umana del “viaggio”. Siamo naturalmente itineranti, chiamati al cammino.
Sempre Marguerite Yourcenar ci ricorda che “Sembra esserci nell’uomo, come negli uccelli, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove”.
Come possiamo dire ai nostri ragazzi, figli della mondialità, di non approdare al mondo, penetrandone le fibre, conoscendone non le fantasie volubili di una fugace apparizione televisiva o la furba proposizione parziale di internet?
“Cento motivi reclamano la partenza. – scrive Colin Thubron (scrittore e viaggiatore inglese) - Si parte per entrare in contatto con altre identità umane, per riempire una mappa vuota. Si parte perché si è ancora giovani e si desidera ardentemente essere pervasi dall’eccitazione, sentire lo scricchiolio degli stivali nella polvere; si va perché si è vecchi e si sente il bisogno di capire qualcosa prima che sia troppo tardi. Si parte per vedere quello che succederà”.
Non sono preoccupato per i giovani che partono; sono amareggiato per quelli che vengono di fatto espulsi da una realtà che non sa trovare occasione d’impegno lavorativo e professionale, che non sa apprezzare il pensiero divergente dal solito tran tran di una esistenza noiosa e ripetitiva. Sono invece entusiasta per quell’andare altrove a portare alto il nome della loro città d’origine; giovani che dovunque inseriscono nel curriculum vitae: “Nato a Foggia”.
Il futuro nei nostri giovani deve essere qui e altrove; qui per ridare alla nostra terra quanto da questa terra hanno ricevuto, ma qui con lo sguardo alla mondialità che è l’orizzonte di tutti i confini, anche quelli minuti delle nostre strade. Deve essere “altrove” non abiurando le radici che danno origine al tronco robusto della loro intelligenza, dei loro sentimenti, del loro farsi nel mondo e fare il mondo.
Siamo un po’ tutti Ulisse, viaggiatori impenitenti, e prima o poi ricorderemo, alla partenza dei nostri figli, i versi di Dante, messi in bocca all’eroe greco.
“Né dolcezza di figlio, né la pieta/del vecchio padre, né 'l debito amore/lo qual dovea Penelopè far lieta,/vincer potero dentro a me l'ardore/ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto/e de li vizi umani e del valore….
Chiudo questa conversazione, scusandomi per un riferimento che mi coinvolge, come persona e come preside, ma ritengo questo stralcio di lettera, inviatami da un ex alunno del Liceo Classico, significativo per il tema trattato.
“Caro preside, colgo l’occasione per farle i migliori auguri per il nuovo anno. Come sa, mi trovo a Roma per gli studi universitari e di tanto in tanto, quando sono solo e non sono in giro, o per gli studi o con i colleghi, è naturale ripensare alla mia vita di studente. Mi vergogno, ma non dovrei vergognarmi, che mi piglia la nostalgia che solo adesso capisco cosa è. Ricordo sempre le sue parole quando, quasi a titolo di sfottò, soprattutto quando pigliavamo la vita alla leggera, ci ripeteva quei versi di Leopardi… “godi, fanciullo mio, ecc.”.
Nostalgia della famiglia, della scuola e un poco anche di lei. Qui sono in una grande città ma mi manca la mia piccola città, Piazza Italia, la mia scuola, le persone che hanno accompagnato la mia vita.
So che forse, dopo la laurea, non tornerò a Foggia ma questo non vuol dire che dimenticherò quello che lei ci ha detto durante il viaggio di istruzione: “Avete visto? Quando siete partiti eravate contenti di partire; quando siete ritornati, eravate contenti di ritornare. Vi succederà anche dopo, quando sarete diventati grandi: si parte con gioia ma inevitabilmente vi verrà voglia di ritornare, se qui, nella vostra terra avete lasciato affetti e buoni ricordi”… Un abbraccio, caro Preside."
Chiudo la mia conversazione augurandovi un grande amore per la nostra città, solide radici ai nostri figli, dignitoso rispetto per la nostra storia, concreto coinvolgimento nel suo presente e magnifiche prospettive al suo futuro.
Foggia, 22 gennaio 2015 prof. Davide A. Leccese
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